Una solitaria un pò speciale di Alessandro Margnetti LISSTA

22 aprile 2002  

23 aprile 2002  

24 aprile 2002

25 aprile 2002  

26 aprile 2002

22 aprile 2002

Sono riuscito a dormire malgrado l’agitazione. Da solo non ho mai affrontato più di 150 km. Non ho molta esperienza né sono più giovanissimo e ora mi sono messo in mente di togliermi questo sfizio: cinque giorni in moto, da solo, su strade mai percorse.

Molti, in LISSTA, mi hanno aiutato: Luca Barozzi, Giorgio Vignuda e un suo sconosciuto amico, Diego Tomasi, Mariano, e sicuramente dimentico qualcuno. Anche altri amici, conosciuti sul sito dei “motards” svizzero francesi mi hanno dato indicazioni, incoraggiamenti e consigli. Partire resta comunque difficile. Doris, pur non ostacolandomi in nessun modo, è apertamente contraria a questa mia mattana e ciò non mi è d’aiuto.

Parto comunque. Alle otto di mattina scollino sul Monte Ceneri. Attraverso Lugano e da Gandria risalgo il lago. C’è poco traffico, il lago è calmo, fa caldo. Passo in fretta la Valsolda, risalgo il tratto alto del lago di Como e mi inoltro nella Valtellina. La bassa valle, senza offesa per nessuno, non è granché: paesotti tutti uguali, supermercati che si alternano a ipermercati in una corsa al prefisso altisonante che non significa più nulla, qualche fabbrica.

Mi fermo a Talamona, da parenti, per un caffè e riparto subito verso Teglio (ma non è ancora ora per i pizzoccheri) e il passo dell’Aprica.

Il luogo è un po’ deprimente: alberghi chiusi, finestre sprangate. La stagione invernale è andata male ed è troppo presto per quella estiva. Mi concedo il tempo per un’aranciata e due cartoline e sono subito diretto verso il Tonale. Mi lascio alle spalle il paese di Edolo che mi ricorda il nome di un battaglione italiano decimato durante la campagna di Russia, come il Morbegno e il Vestone. Scoprirò poi che nel corso della mia gita avrò modo di ritrovare parecchi riferimenti letterari.. Alla mia destra, il gruppo dell’Adamello mi separa dal Trentino e dal traguardo della giornata. Sul Tonale, un paio di strani personaggi, con gli scarponi da sci ai piedi, contendono a un sole già ampiamente primaverile l’ultima neve. L’aria profuma di resina, forse per le gemme degli abeti, forse per i tronchi accatastati ai lati della strada.

A cles, in mezzo a una distesa di meli fioriti scendo la via che sovrasta il lago di S. Giustino. La prima idea è quella di seguire il torrente Noce fino a Mezzolombardo, passare Lavis e risalire l’Avisio e la Val di Fiemme. Ci ripenso e torno indietro, puntendo a nord-est per aggiungere il passo della Mendola alla mia magra collezione di passi alpini. A Caldaro punto su Ora, mi innesto sulla val di Fiemme dove mi fermo a dissetare il cavallo.

Cavalese significa Cermis e il pensiero va alla tragedia, frutto di stupidità e arroganza, di qualche anno fa.

Predazzo si presenta innevata. Devo risalire verso il passo Rolle per scendere poi verso la valle di Primiero, ma questo po’ di neve mi desta qualche preoccupazione. Stupidamente, per pigrizia, non metto l’imbottitura alla giacca né cambio i guanti. Salgo verso il passo in tenuta estiva e in alto fa freddo, sul passo mi faccio sorprendere da un po’ di tormenta. Il parcheggio dove la scorsa estate ho lasciato la macchina per andare in gita a Col Bricon e sepolto da quasi un metro di neve.

Scendo con prudenza verso S. Martino di Castrozza. L’acqua proveniente dalla neve che si è sciolta durante il giorno comincia a gelare e nei tornanti c’è da tenersi allegri. S. Martino è una città morta. Nulla ricorda l’attività chiassosa e allegra di un centro turistico. Non mi fermo e raggiungo Mezzano di Primiero dopo una cavalcata di 380 km. I miei primi 380 km in una volta sola.  


23 aprile 2002

Pernotto da parenti, ma le occasioni per chi passa per queste parti non mancano. Lascerei stare S. Martino, che sta diventando una specie di salotto snob, ricco di alberghi per ricchi. Per chi ama il campeggio annoterei i tre indirizzi qui riportati. In particolare, il camping di Tonadico mi sembra  accogliente e tranquillo.

http://www.italiaabc.it/camping/trentino/trento/camping/trento2/calavise/

http://www.camping.it/italy/trentino/trento/info.asp?id=327

http://www.camping.it/italy/trentino/trento/info.asp?id=2054

A Imèr si trova pure un albergetto con l'insegna della sosta per motociclisti, mi sembra che si chiami Bellavista, ma non mi sono fermato a  verificarne lo stato. Un punto di ristoro con la stessa insegna si trova anche in cima al Passo Rolle, ma lì è tutto chiuso.

La giornata è tranquilla e di riposo. Pago le conseguenze del freddo sul passo Rolle con un potente raffreddore.

La mattina vado a dare un’occhiata alla Val Canali: boschi e malghe sotto l’ombra imponente delle pale di S. Martino. Tordi e ciuffolotti prendono il volo al passaggio della moto. Qua e là qualche scoiattolo imprudente, travolto dai rari mezzi di passaggio su queste strade. Stranamente non vi sono scoiattoli rossi fra le vittime della strada; solo scoiattoli neri. Mi intrattengo per un po’ con un anziano signore addetto alla manutenzione del parco delle Pale di S. Martino e di Paneveggio. Sembra contento di scambiare quattro chiacchiere con qualcuno e mi dà molte informazioni sulla gestione del parco, sulla fauna, sulla storia del Conte Vesper, sulle montagne che ci circondano. Alla fine ci ringraziamo a vicenda. Io lo ringrazio per le informazioni, lui credo che mio ringrazi per aver dato un suono alla sue silenziosa e solitaria giornata di operaio addetto al parco.

Nel pomeriggio salgo il passo Gobbera, poi da Canal S. Bovo  proseguo fino al lago Calaita, dove anni fa furono girate alcune scene del film “L’orso” di J. Jaques Annaud. Il lago è ancora coperto di ghiaccio, ma è un ghiaccio grigiastro e all’apparenza cedevole. Non oso verificare l’apparenza. Penso che gli esquimesi devono avere un vocabolo per definire con precisione questo tipo di ghiaccio.

Torno a Canal S. Bovo, attraverso il torrente Vanoi sull’alto ponte costruito dopo che il precedente è stato spazzato via dall’alluvione del ’65 e mi inerpico verso il passo Brocon. È troppo tardi. Faccio una foto alla valle, ridiscendo fino a Imer e torno a Mezzano. Mi fermo un attimo in piazza per regalarmi una birra. Un individuo mi avvicina, mi chiede se sono contento della Transalp. Anche lui ne ha una e ne è felicissimo. Per un attimo ci sembra di essere vecchi amici.


24 aprile 2002

Mi alzo presto, il naso intoppato più che mai. Il percorso di oggi mi è stato suggerito da Giorgio Vignuda. Io non oso discutere le idee di un neolaureato che gioca in casa. Mi accorgerò poi di essere stato saggio.

Il cielo è imbronciato. Spero di non trovare l’acqua. Salgo veloce gli 8 km che mi separano dal Passo Cereda. Mentre scollino, riesco a vedere un capriolo che scarta e si nasconde nel bosco.

Agordo è un paesotto pretenzioso e movimentato. Me lo lascio alle spalle inerpicandomi verso il passo Duran. Il fondo stradale non è bellissimo: alcune crepe tendono a catturare le ruote con un fastidioso “effetto binario”. Ma il paesaggio compensa abbondantemente il difetto. Scendo la val Zoldana in un attimo. La strada è buona, larga e veloce. Sarebbe ancora migliore se non fosse per qualche indigeno che, salendo con la macchina a tavoletta, tende a tagliare le curve.

Di colpo ci si trova a Longarone. Di fronte la grande diga del Vajont, a vedersi, neanche tanto lontana.. I ricordi sono confusi: nel ‘63 avevo sette anni. Ricordo la gravità nelle voci dei miei genitori, una stretta al cuore, una paura. Con qualche tornante, qualche galleria e pochi chilometri si sale a Erto. Salgo con uno strano magone addosso, pensando ai 2000 di cui non resta che il ricordo e forse nemmeno quello.

La diga è una diga, un po’ sbrecciata su un lato. La frana fa ancora paura dopo quarant’anni. Oggi ci crescono i larici, ma la cicatrice del Monte Toc è ancora lì: nuda e lucida. Passo il “centro storico” di Erto a 20 km/h, in seconda marcia. Sento le case che sussurrano la tragedia. Una vecchina nera, inerme e schiva, sembra portare in sé e con sé il marchio della sopravvissuta. Incappo in una specie di Via crucis sbiadita, opera di bimbi ertani e la seguo salendo fino a due palazzoni grigi: uno di qua e uno di là dalla strada. Nulla di bello. Nulla? Di fianco a un baretto c’è una vetrina che dà su un locale occupato solo da una vecchia Gilera, poi la Bottega di Mauro Corona. Avrei fatto la strada che ho fatto solo per essere lì a sbirciare i libri, le opere, i trucioli le vecchie locandine che ingombrano la bottega di questo grande artista. La luce è accesa ma Corona non c’è. Meglio così. Posso sbirciare con calma e poi non penso che lo scultore avrebbe apprezzato la presenza di un motociclista di mezza età, nerovestito e curioso. Scatto una fotografia (che sarà probabilmente sfocata) all’autoritratto con gufo e toscano che funge da insegna, bevo un caffè e riparto.

Fino a che si sente la presenza del Vajont, resta uno strano senso di angoscia e di tristezza. Il Monte Toc sembra voler ripetere che non è colpa sua se fra gli uomini esistono gli stupidi e gli avidi.

Poi i boschi, le rocce, la strada che chiama, curve e controcurve. Torna la gioia della guida, un po’ mitigata dal cielo che a tratti si fa più grigio e minaccioso. Costeggio il lago di Barcis senza fermarmi e sbuco dalla Val Cellina trovandomi di colpo senza punti di riferimento se non le montagne che mi sono lasciato alle spalle.

Due persone anzianotte e poco più legate al territorio di quanto non lo sia io, riescono (malgrado qualche esitazione) a indirizzarmi verso il lago di Tramonti. Passo Maniago, patria di coltelli, di coltellinai e (magari) di accoltellamenti e raggiungo Tramonti di Sotto. Sono nel Friuli. Di tanto in tanto mi scopro a cercare le tracce del terremoto del ’76, tracce che allora, a Buia, a Gemona e a Forgaria, mi riempivano gli occhi. Ricordo che nell’estate di quell’anno si narrava del lago di Tramonti che era diventato rosso sangue e mandava strani bagliori dal fondo. La strada che costeggia il lago, ora tranquillo e innocuo, è stretta e rende difficili i sorpassi. L’autoarticolato che mi precede trasporta un carico di maiali. Rimpiango il profumo di essenze resinose e di foglie umide che mi ha accompagnato qualche ora prima. In fondo al lago mi fermo per due foto, per una telefonata a casa, per oliare la catena e per lasciare al camion puzzone il tempo di allontanarsi. Salgo il monte Rest. In cima trovo una faggeta che mi costringe a un attimo di sosta. Poi di nuovo giù per curve, tornanti, brevi rettilinei e crepe nella strada che ancora catturano la ruota e rovinano la traiettoria. Ancora una volta si viene sputati dal canyon alla campagna. Sopra Ampezzo volano tre aquile: una è un giovane dello scorso anno, con la barra bianca sotto le scapole; un’altra è un adulto con le remiganti aperte come dita, la terza è troppo alta per essere distinta bene.

I panzerotti ai funghi di Ampezzo sono eccellenti, anche il petto di pollo ai ferri lo è, e il vino portentoso va giù che è una bellezza (Hotel Colmajer: il tutto per 12 euri!). Come si sta bene! E che male alle ginocchia e alle spalle! Non vorrei andarmene, ma la Slovenia non è lì. Parto, con la digestione in corso, un po’ controvoglia. Una palettata di sabbia, persa da un autocarro in un tornante, mi fornisce l’adrenalina sufficiente per proseguire. La ruota posteriore scarta quei pochi centimetri che mi sembrano durare in eterno e mi fanno digerire panzerotti, pollo e vino.

Seguo la statale, passo Tolmezzo, continuo in direzione di Tarvisio fino a che non trovo una deviazione che mi indirizza verso Sella Nevea. Ancora una valle stretta, bella e tremenda nella sua solitudine. Pioviggina, ma non al punto di farmi togliere la tuta antipioggia. Cerco un distributore di benzina, ma tanto vale cercare una base spaziale o tracce di civiltà precolombiane. Qui non c’è nulla. Le poche case che si incontrano sembrano capitate lì per sbaglio e quello schifo di un indicatore di livello alterna speranza a certezza a disperazione. Non mi piacerebbe trovarmi qui senza benzina. Quel po’ di pioggia e il pensiero volto alla benzina non mi permettono di godere appieno la salita. Vedo alla mia destra il lago del Predil, scendo verso le cave omonime e arrivo a Tarvisio, dove un ragazzo addetto a un distributore mette in fuga i miei timori. Nel serbatoio ci stanno poco più di 15 litri. Mi sono preoccupato per niente.

Torno verso il Predil, scollino fra carabinieri diffidenti e doganieri sloveni annoiati. Un albergo per motociclisti segnalatomi da un amico di Giorgio Vignuda sembra carino e ben tenuto.  

(…) all'entrata del terzo gruppo di case

(Log Pod Mangrtom) sulla dx trova

Motel ENCIJAN

(tel.+38653886260)  carino con

sauna e se ben ricordo prezzi

ridicoli,circa 20/25 minuti da Tarvisio

Così scrive Rick, che ringrazio.

Il cane da pastore maremmano che mi viene incontro è gentile e apprezza una grattatina dietro le orecchie. Tutto bene, tutto perfetto. Peccato che l’albergo sia chiuso. Scendo ancora la valle per qualche chilometro, uscendo dal parco del Trigal e raggiungendo Bovec, un paesotto lindo e ordinato al bivio fra KranjskaGora e Gorizia. Trovo alloggio in un albergone multidotato di piscina, sauna, fitness, parrucchiere, e altre opzioni. Quaranteseienne, mi trovo pivello fra pensionati di varia nazionalità. Poco male. L’albergo è tranquillo e i prezzi, pur senza essere popolari, sembrano accettabili. Un bel bicchiere di Jack Daniels con un caffè espresso, sono aggiudicati a 550 talleri, 2,25 euri.

Rick, tramite Giorgio Vignuda mi invia altre notizie che la mia tabella di marcia e la mia condizione di cavaliere solitario mi costringono a ignorare. Sicuramente lo rimpiangerò, ma qualcun altro ne potrà forse approfittare:

Per mangiare a Tarvisio se vuole

investire un po' consiglio Da Benito a

Camporosso (andare in cucina a

salutare a nome mio Lauro il

cuoco/contitolare ATista)secondo me

uno dei  migliori ristoranti di pesce

della regione(sembra strano a

Tarvisio ma così è), se si accontenta

di una pizza mandalo Da

Giannino(andare a salutare a nome

mio Mau titolare/pizzaiolo

c/Varadero).  


25 aprile 2002

Mi alzo alle 7 senza bisogno della sveglia. La colazione proposta dall’albergo è luculliana e assurda. Potrei scegliere fra il muesli, le salsicce, i fiocchi d’avena, l’insalata russa, diversi tipi di marmellata, l’affettato, l’insalata di pomodori, tè, caffè, fette biscottate, polpette che sanno d’aglio e altro ancora che non sto a indagare. Mi accontento di un caffè e di un succo d’arancia. Il primo è penoso, il secondo è di origine dubbia e probabilmente gli agrumi esistono solo sulla confezione.

Pago con qualche difficoltà: potrei pagare con gli euri, ma poi il resto mi sarebbe dato in talleri, moneta inservibile altrove. Mi libero di 2000 talleri e liquido il resto con la carta di credito. Prima delle 8 sono in viaggio. Sul passo del Predil vengo controllato sia dagli sloveni sia dagli italiani. Questa volta i secondi sono più cordiali dei primi. Scatto un paio di foto e poi giù, fino a Tarvisio. La meta è Innsbruck. Il programma è “quel che viene viene”. Le Alpi sono un drappo, la strada un filo, la moto un ago. Io sono lo stilista, il sarto, l’artefice di un percorso che nasce lì per lì dal caso, dall’errore, dal non volersi fermare a consultare la carta.

Luca mi ha intimato di non privarmi di un certo passo. Ma quale? Non me lo sono annotato e da queste parti di passi che ne sono parecchi. Opto, per cominciare, per la strada panoramica del Passo Pramollo, tra Pontebbe e Tröplach, in Austria. La statale fra Tarvisio e Pontebbe è pressoché deserta. Ogni tanto un forte cadente situato su un poggio o all’imbocco di una gola, mi ricorda gli avvenimenti che quasi un secolo fa hanno reso sanguinose queste montagne, avvenimenti che ho studiato sui libri di storia e che qui acquistano una loro fisicità.

Il passo si trova in cima a una valle splendida e selvaggia. La strada è stretta, ma ben tenuta. Alcuni tornanti stretti, a volte in galleria, fanno guadagnare quota abbastanza rapidamente. In cima vi è un laghetto attorno al quale si trovano già alcuni pescatori. Sosto un attimo per riprendermi dalla salita. Scendo in Austria lungo una strada larga e ottimamente tenuta che serve, dalla parte austriaca, impianti sciistici di prim’ordine. Raggiungo in breve tempo la strada che percorre la Gailtal. L’idea è quella di proseguire verso ovest, seguendo la Lesach – Tal. A Kötschach mi si para davanti un bar che a mo’ di insegna esibisce una vecchia moto DKW, con il motore a pezzi e ridipinta in un curioso color rosa. Mi fermo per un caffè e al momento di ripartire compio un errore fatale. Invece di studiarmi bene la carta e proseguire verso ovest lungo la Lesach – Tal (o eventualmente a Nord – Ovest in direzione di Lienz) mi faccio incantare dalla promessa di un altro passo e mi inerpico verso il Plocken (Passo di M. Croce Carnico) tornando così su Tolmezzo.

In cima al passo mi trovo assieme a una grossa BMW R 1100 GS e a una non meglio identificata coustom. Un saluto cordiale ai due centauri, ma poi non ce n’è per nessuno: sulle strade di montagna la TA è più agile di qualsiasi altra moto e me li lascio dietro al secondo dei tredici tornanti della discesa.

Arrivato in fondo mi accorgo di aver sbagliato strada. Non ho voglia di tornare indietro: percorrerò la Carnia e il Cadore. Mi trovo dunque ancora ad Ampezzo. Salgo il passo della Mauria fra i boschi e il calcare che ormai mi è consueto e scendo verso Cortina d’Ampezzo. Verso l’una arrivo a S. Vito di Cadore e mi fermo per un panino. Scambio due parole con un paio di ragazzi pure diretti verso Cortina. Quando dico loro che sono diretto a Innsbruck mi guardano come si guarda un matto. Uno mi augura buona fortuna guadagnandosi i rimbrotti di un altro che, arguto, gli fa notare che non sto andando alla guerra. A Cortina faccio il pieno, più che altro per scaramanzia e memore delle preoccupazioni di ieri. Poi proseguo d’un fiato per Brunico, Bressanone, Vipiteno e il Brennero. Sulle strade quantità di motociclisti che salutano: a coppie, terzetti, grossi gruppi. Le poche moto singole che incontro sono comunque occupate da due persone. Io sono solo con la mia TA e i miei pensieri. Non so se ce ne sia ragione, ma un po’ di orgoglio me lo covo. Arrivo a Mutters, un villaggio appena sopra Innsbruck, sotto una pioggerella insistente. Lì mi fermo. Trovo una camera che è un gioiellino (a parte la vista sul cimitero), faccio due passi, scrivo le ultime cartoline, ceno con una grigliata da leggenda, telefono a casa e a Luca, sapendo che solo un motociclista è in grado di capire la mia euforia dopo tanti chilometri, riordino gli appunti di oggi ascoltando vecchie canzoni di Lucio Battisti e vado a letto, convinto di aver speso bene la giornata.

La camera al Gasthof - Restaurant Stauder mi costerà 36 euri e la cena 30,74. Sono trattato da re, ma la Slovenia è lontana.


26 aprile 2002

Ultimo giorno e ultimi 400 km di viaggio. Prima di partire do un po’ d’olio alla catena.

Gli obiettivi della giornata sono due: fare quattro passi in Marie Theresien Strasse, a Innsbruck ed evitare il più possibile la statale e l’autostrada fra Innsbruck e Landeck.

Il primo obiettivo, se si esclude la colonna mostruosa che entra in città alle otto di mattina, è raggiunto egregiamente. Innsbruck è una bella cittadina che sa mantenere una dimensione umana. La sua pacatezza, quel non so che di spirito mitteleuropeo che vi si respira, i vecchi palazzi del XVII e XVIII secolo che ben convivono con architetture più moderne, l’operosità ordinata, i minuscoli negozi, i bar che si protendono fin sulla strada, meritano un momento di pausa.

Lascio Innsbruck uscendo dal centro e mantenendo la direzione del Brennero, devio verso Mutters, passo Natters, proseguo verso Axam e imbocco la Sellraintal. La valle è una sorpresa splendida. In un paesaggio che varia continuamente, raggiungo un colle (il Kühtai) a 2020 m. Lungo tutta la salita incontro una sola macchina. Mi incrocia mentre sto scattando un paio di fotografie. È una Land Rover con targhe britanniche. A bordo una coppia sulla sessantina, look vagamente hemingwayano, saluta sorridente al passaggio. Sul colle mi tolgo la soddisfazione di fotografare la TA con le ruote nella neve.

Scendo fino a Oetz, il villaggio che dà il nome all’Uomo del Similaun. Svoltando a sinistra salirei fino al passo del Timmel che però è ancora chiuso per la stagione invernale. Da lì si potrebbe scendere fino a Merano per poi risalire la Val Venosta. Scendo invece verso Imst. Ad Artzl piego a sinistra verso Wenns, poi Piller e mi ritrovo sulla statale che porta al Resia. Prima di attaccare la salita rifaccio il pieno di benzina. Ho imparato che in cima ai passi si trovano raramente dei distributori. Mi accodo a due tedeschi: uno con l’immancabile BMW R 1100 GS (gialla e nera), l’altro con una AT superaccessoriata. Nei rettilinei mi sono superiori e i Kw in più di cui dispongono permettono loro di allungare. Nei tratti più tortuosi li riprendo immancabilmente. Sul Passo arriviamo assieme.

I prati sono bianchi di colchici.

Scendo verso il lago e mi fermo per la foto d’obbligo al campanile che emerge dalle acque. La cosa mi mette un po’ di tristezza: sotto la terra che costituisce la diga a protezione del campanile e sotto l’acqua c’è un villaggio. I suoi abitanti hanno dovuto andarsene con la costruzione dello sbarramento che ha formato il lago, lasciando lì le loro storie, i loro ricordi, i loro orti, gli odori e i rumori familiari.

Poco sotto, mentre lo sguardo già si allarga sulla Val Venosta, mi fermo ancora per dare un’occhiata al santuario militare che si trova sulla strada. È, di fatto, un cimitero con i corpi di 315 soldati e sottufficiali morti nella guerra del ’15 - ’18. Ho visto parecchi cimiteri militari lungo la strada, e resti di fortezze. Questo è uno dei tanti, ma mi fermo lo stesso. Meditando sulla caducità umana (un che di amletico mi pervade sempre), osservo che il grado militare più alto fra i caduti è quello di maresciallo dei carabinieri. Presumo che gli ufficiali morissero più o meno come gli altri, ma si facessero seppellire altrove, mantenendo le distanze dalla truppa plebea anche da defunti. Noto poi che nove loculi sono occupati da militari non identificati. Mi si fa chiara la nozione di “milite ignoto”. Penso a morose sbigottite, a madri in perenne dubbio, a gente che è passata soffrendo attraverso la storia facendosi ingoiare, all’idiozia della retorica, delle fiamme perenni e delle corone di fiori.

Il resto del viaggio prosegue per strade conosciute. Sosto ancora un momento a Müstair per una fotografia al monastero dell’XI secolo, probabilmente costruito sopra un precedente convento di monaci fondato da Carlo Magno e poi proseguo attraversando il Parco nazionale svizzero fino a Zernez. Avrei voluto fermarmi per bere una birra all’albergo Parco Nazionale Forno. Avrei levato il calice alla salute di Mario Rigoni Stern che a questo albergo ha dedicato una pagina, ma è tutto chiuso e quindi proseguo. A Zernez svolto a sinistra verso S. Moritz, poi Silvaplana e il rapido strappo che porta allo Julier. Con più tempo e i passi aperti si sarebbe potuto fare il Flüela per scendere dall’Albula e risalire lo Julier. Tengo in serbo il giro per un’altra occasione.

Da Thusis risalgo la Viamala fino a Zillis dove mi fermo per ammirare lo splendido soffitto della chiesa. Proseguo fino ad Andeer dove riprendo la veloce Nazionale 13 che mi porta in poco tempo a S. Bernardino. Sazio di strade secondarie e di passi alpini (quello del S. Bernardino è ancora chiuso) scendo lungo la nazionale fino a Bellinzona e poi a casa, a concludere i miei primi 1630,8 km in solitaria.


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